In Italia, la spesa per i servizi cloud è in continua crescita. Nel 2024, le aziende lo considerano il principale abilitatore di trasformazione digitale e lo adottano quotidianamente a supporto dei processi interni e dei servizi che mettono a disposizione dei loro clienti. Lo scorso anno, nonostante le problematiche legate all’inflazione, la spesa in servizi cloud è aumentata del 19% in Italia, con un +24% per quanto concerne la componente Public & Hybrid Cloud e un +9% per i servizi di Virtual & Hosted Private Cloud (Osservatorio PoliMI).
Posto che tutte le imprese adottano in qualche misura il cloud, quelle che decidono di avviare ora un percorso di trasformazione più profonda e significativa si trovano di fronte ad un bivio, ovvero alla scelta del modello cloud da adottare, che dipende dal business aziendale, dagli obiettivi della trasformazione, dalla normativa cui l’azienda è soggetta, dagli investimenti infrastrutturali (IT) già effettuati e dal budget a disposizione. In questa sede parliamo di cloud ibrido e private cloud.
Cloud ibrido e private cloud: due modelli ideali per le imprese
Come si può notare dai dati dell’Osservatorio, tra i due, il cloud ibrido è il modello preferito dalle aziende. Storicamente, le imprese hanno sempre nutrito molto interesse per la componente pubblica del cloud), ma i progetti erano rallentati da due tipi di considerazioni:
- la necessità di valorizzare gli investimenti già effettuati in infrastruttura interna e
- scarso trust, ovvero fiducia nel cloud pubblico, soprattutto per quanto concerne la tutela dell’accessibilità e della confidenzialità dei dati
Il concetto di cloud privato nasce per stimolare il passaggio alle tecnologie del cloud abbattendo i timori legati alla componente pubblica. Nel cloud privato, la componente tecnologica è cloud in tutto e per tutto, ma l’infrastruttura è single-tenant, cioè non condivisa. Le aziende possono così utilizzare la propria infrastruttura interna oppure, come nel caso dell’Hosted Private Cloud citato dall’Osservatorio, affidarsi alle macchine e all’infrastruttura di un provider dedicato, ma sempre con la massima capacità di controllo sul dato (tipica di un modello privato).
Con il private cloud, vengono meno i timori legati agli investimenti pregressi, alla sicurezza e alla privacy del dato, elementi essenziali soprattutto quando l’azienda opera in mercati fortemente regolati come finance, healthcare, pharma o food.
La scelta del private cloud è più riconducibile alla spesa sostenuta per l’implementazione dell’infrastruttura applicativa dato che, nella quasi totalità dei casi, le aziende hanno da sempre lavorato e sviluppato sistemi e competenze su un ambiente, e quindi prediligono rimanere in quell’ambiente.
Rimane da valutare un tema di convenienza e di opportunità economica del private cloud, date le economie di scala degli hyperscaler e l’adozione pervasiva del modello di pricing per-use: ma è molto difficile, se non impossibile, esprimersi in modo netto su questo punto, considerando tutte le variabili in gioco tra cui gli investimenti CapEx da effettuare, il costo di mantenimento dell’infrastruttura, i costi delle competenze, la frammentazione della proposta da parte degli hyperscaler, le offerte in essere.
Resta il fatto che, nel caso del private cloud, l’azienda ha il pieno controllo sui propri costi e può valutare attività di ottimizzazione continua. Questo offre anche il vantaggio di una migrazione al cloud quasi indolore, rispetto a dover affrontare una revisione, e molto probabile una modifica, dei sistemi per poter “girare” su altri ambienti.
Cloud ibrido come il meglio dei due mondi
Il cloud ibrido, soprattutto nella variante multicloud (più fornitori pubblici) sembrerebbe la soluzione adottata con maggiore frequenza dalle medie e grandi imprese.
L’obiettivo del paradigma ibrido è creare una sinergia tra i benefici dell’infrastruttura privata e quelli del public cloud, facendo convergere svariate risorse, servizi e asset infrastrutturali in un’unica piattaforma IT con governance centralizzata. Adottare un modello ibrido significa utilizzare contestualmente componenti pubbliche e private, distribuendo (dinamicamente) processi, applicazioni, dati e workload su quella più adeguata sulla base di valutazioni di compliance, performance, sicurezza, resilienza e costo. Essenziale a questo proposito poter utilizzare modalità di gestione dei datacenter di tipo “stretched” in grado di sfruttare appieno la potenza computazionale di cui si dispone.
Il cloud ibrido offre dunque il controllo tipico dell’infrastruttura privata, ma anche la scalabilità e accesso all’innovazione del cloud pubblico, oltre a tutti i servizi messi a disposizione dai cloud provider: si pensi, a tal fine, a soluzioni BaaS (Backup as a service) o DRaaS (Disaster Recovery as a service) basate sugli spazi e la scalabilità pressoché illimitata dell’infrastruttura pubblica. L’unico limite dell’ibrido rispetto alle versioni pure (pubblica e privata) è la maggiore complessità, che si manifesta sia a livello di progettazione che di implementazione e governance.
L’ambiente si estende e si introducono maggiori effort di gestione (ad esempio la conoscenza di diversi ambienti, i temi di networking e dei collegamenti, o i maggiori controlli in tema di sicurezza da considerare). A far da contraltare alla maggior complessità è la possibilità, per un modello ibrido, di sfruttare le diverse peculiarità di diversi cloud, limitando effetti di lock in e comunque di abbracciare il multi-cloud con approccio graduale (salvaguardando il ciclo di vita degli investimenti)
Quindi, i livelli di flessibilità e di apertura al futuro che è in grado di garantire il modello ibrido superano abbondantemente i suoi limiti e lo posizionano come soluzione più che adeguata alla modernizzazione di tutte le aziende.